La storia
Avevo 9 anni ed era il 1954. Abitavo con i miei genitori, una nonna ed uno zio vedovo in una casa al centro di Roma, vicino a piazza del Popolo, al quarto piano, senza ascensore.
Negli ultimi tempi vedevo uno strano movimento che non riuscivo a comprendere del tutto, planimetrie sul tavolo da pranzo, conti e riconti e mamma che era radiante perché diceva “anche noi avremo una casa” e io mi chiedevo “ma perché questa dove abitiamo cos’è?” Era pure abbastanza grande e poi avevo i miei amici, Paola e Aldo e, ogni tanto, c’era anche Linuccia che abitava più lontano ed aveva difficoltà a venire da noi tutti i giorni. Davanti, nel palazzo di fronte, c’erano i miei nonni materni (la nonna che abitava con noi era quella paterna, il nonno paterno apparteneva ormai al mondo dei più). La cosa, ricordo, mi metteva una certa agitazione che non riuscivo a definire o forse ero agitato perché non afferravo quello che stava realmente accadendo e risentivo, in qualche modo, di quella atmosfera vivace che si era sistemata nella casa in cui abitavo.
Un bel giorno di primavera mia madre mi accompagnò a scuola, come faceva tutti i giorni, e mi disse che all’uscita sarebbe venuto a prendermi papà. Era una novità perché il mio papà la mattina lavorava ed il suo orario di lavoro finiva abbondantemente dopo l’uscita di scuola. Ma la cosa non mi diede pensiero più di tanto. In classe, anzi, dimenticai proprio la questione perché c’era Perla della quale ero segretamente innamorato (segretamente per me, ma lo sapevano anche i banchi dato il mio evidente modo di comportarmi).
All’uscita trovai mio padre con un sorriso radiante che mi venne incontro con passo veloce, mi prese per la mano e mi chiese come era andata la giornata a scuola. Farfugliai qualcosa che non ricordo, ma qualsiasi cosa avessi potuto dire non credo avesse potuto raggiungere l’attenzione del mio papà che palesemente aveva uno sguardo che avrebbe varcato qualsiasi confine: era in un’altra dimensione. Il suo aspetto, comunque, sereno e soddisfatto, non mi diede preoccupazione, anzi mi sentivo felice. Io stavo con il mio papà a spasso per Roma. Ma subito vidi che c’era qualcosa di nuovo. Non facevamo la solita strada per tornare a casa. Fiducioso, comunque, arrancavo dietro i passi veloci del mio genitore. Prendemmo un mezzo, poi un altro. Pensai che forse era la festa di qualcuno e si andava a pranzo fuori. Scesi dal filobus (a quei tempi Roma era invasa da filobus e l’aria era sicuramente più pulita), attraversammo la strada e lui guardandomi mi disse: “eccoci a casa”. Casa? Ma se stavamo non so dove e intorno c’erano solo palazzine nuove con traffico – allora – inesistente. Ma che casa stava dicendo. Mi lasciò la mano, mise la sua nella tasca dei pantaloni e tirò fuori un mazzo di chiavi legati con una catenella ed un cartoncino sul quale era scritto “INT. 12 – DOTTORI”. Aprì il portone davanti a noi ed entrammo. Qualche passo ed aprì una seconda porta, più piccola: era l’ascensore. Spinse il pulsante con il numero 5 e mentre stavamo salendo disse: “pensa, a fare cinque piani ci mette 24 secondi” (ancora oggi è lo stesso tempo). Giunti alla meta entrai nella nuova casa: trovai mamma, zio, nonna che trafficavano tra le varie camere tutti presi da ciò che stavano facendo. Sballavano scatoloni, pacchi e ritrovai così alcuni vecchi mobili che erano venuti con noi. Altri erano proprio nuovi. Papà scambiò qualche parola e poi mi portò in una camera dicendomi che quella sarebbe stata la mia stanza, nella quale c’era anche una scrivania nuova con tanti cassetti che serviva per i “lavori intellettuali”. Vidi anche il bagno e, meraviglia delle meraviglie, era un bagno con la vasca, acqua calda e fredda e poi, finalmente, il terrazzo ampio e soleggiato.
Mamma gridò: “il pranzo è pronto” e tutti ci riunimmo nella sala da pranzo, felici e con tanto amore.
Era il mio primo giorno nell’attichetto del mio papà!
Stefano (cioè io) mentre mangia una banana con perfetto stile scimmiesco sul terrazzo dell'attichetto di papà
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